Yes @ Gran Teatro Geox, 29 Maggio 2016

Qualche settimana fa ho rifiutato l’invito di un mio amico che mi chiedeva di accompagnarlo in Arena (quella che c’è a Verona) a vedere i Black Sabbath il 13 Giugno. A me i Black Sabbath piacciono molto, credetemi, ma ho rifiutato; non tanto per il prezzo e nemmeno per il fatto che il 13 Giugno alle 21.00 ci sia Belgio – Italia agli europei, ma semplicemente perché sono terribilmente vecchi. Dai, ammettiamolo, oramai dei vecchietti del rock ce ne facciamo davvero poco e spesso e volentieri risultano solamente delle comiche caricature di loro stessi. Non hanno più il fisico (Axl Rose), si trascinano sul palco (Angus Young), non riescono più a cantare (Neil Young) e tanti altri, nostalgici esempi. Abbastanza triste.

Allora perché, vi starete chiedendo, ho deciso di dire yes agli Yes? Perché gli Yes sono gli Yes e il prog è il prog.

Gli Yes  non sono più il gruppo che erano una volta, hanno affrontato diversi cambi di formazione nel corso degli anni (certo, mai come i Gong), il loro stile ne ha ovviamente risentito e la loro carriera pure. Gruppo tra i più influenti della scena progressive inglese arrivano nel 2016 con soli due membri “originali”: Alan White alla batteria e il sublime Steve Howe alla chitarra. Poi, tra un cambio e l’altro, sono rimasti Geoff Downes alle tastiere, il già collega (a cavallo tra gli anni ’90 e i 2000) Billy Sherwood e Jon Davison alla voce. Il pericolo era dietro l’angolo: un’accozzaglia di musicisti messi lì un po’ a casaccio con lo scopo di sostenere Howe e i suoi schizzi da vecchio rompiballe. E INVECE NO. Chicca di questo tour europeo è la volontà di voler riproporre nella loro interezza due loro dischi, distanziandosi un po’ da quegli artisti ormai attempati che puntano molto su una scaletta di grandi classici e pezzoni da accendino in mano. La scelta è ricaduta su “Drama” (1980) e sul capolavoro “Fragile” (1971).

Yes, gran teatro geox

Gli Yes hanno fatto tutto giusto, a partire dalla presentazione: fondamentale nella vita è il saper riconoscere i propri limiti, in questo caso l’età. Sanno perfettamente di non essere più in grado di correre per il palco, di urlare, di fare casino come gli artisti sopracitati. Il genere suonato, poi, aiuta notevolmente. Due ore e mezza di potente, sano, incredibile progressive rock, suonato meravigliosamente, senza mai risultare sopra le righe, senza mai passare il limite; ognuno al suo posto, qualche sorriso accennato, alcuni cenni infastiditi di Howe nei confronti di ignoti, mai una sbavatura. Perfetti.

L’inizio è da lacrimoni. “Onward” (da “Tormato”, 1978) si fa spazio lentamente dalle casse all’interno del teatro, nessuno sul palco se non il basso di Chris Squire che siede immobile e solitario ad ammirare la platea. Quattro minuti di tributo da brividi al bassista, scomparso il 27 Giugno del 2015. Applausi a profusione, il gruppo entra finalmente sul palco e lo spettacolo può iniziare. Intro di “Machine Messiah“, Howe già nel suo universo, ok, si parte con “Drama”. Credo sinceramente che il mondo abbia un gran bisogno di pezzi da quasi un quarto d’ora, è veramente troppo poco accontentarsi dei canonici tre-quattro minuti. Dopo “Man in a White Car” eccolo, l’inconfondibile giro di basso di “Does It Really Happen”. Squire è insostituibile per carità, ma Sherwood se la cava davvero egregiamente. “Into The Lens”, “Run Through The Light” prima di “Tempus Fugit”. E infatti il tempo se n’è già andato e Drama è già finito. Ma ancora prima di capire cosa stia succedendo ecco la sorpresa! “Siberian Khatru“, dal monumentale “Close to the Edge” (1972), senza dubbio il loro mio disco preferito.

INTERMISSION 20 MINUTES

Io e Nicola, fedele amico e vorace consumatore di musica, decidiamo che è giunta l’ora di una sigaretta. Lasciamo i nostri posti per 15 minuti, riuscendo anche incredibilmente ad evitare di comprare una birra. Due chiacchere sullo spettacolo, impressioni, aneddoti, ma è già tempo di rientrare, che sennò poi Steve s’incazza.

Rieccoli tutti e cinque sul palco, riecco il momento tributi; questa volta tocca a Peter Banks, primo chitarrista degli Yes, venuto a mancare nel 2013. In sua memoria viene suonata “Time And A Word”, targata 1970. Insomma, abbiamo capito che questa sera vogliono farci piangere. Abbandonati i sentimentalismi ecco che Howe, nel suo inglese strettissimo, accenna ad una canzone scritta apposta per gli anni ’80, che farà ballare le “80’s ladies”. Cosa se non “Owner of a Lonely Heart“? Entusiasmo alle stelle, mani che battono a tempo (eh, facile, mica è in tempi strani questa) e tutti contenti. Neanche il tempo riprendersi che gli armonici di Howe introducono (con un po’ di pelle d’oca) “Roundabout“, prima traccia di “Fragile”. Il basso di Sherwood fa il resto. Non ho ancora citato Jon Davison, ci tengo solo a dire che non ha mai sbagliato nulla, MAI. Un po’ di gloria in solitaria anche per Downes, impeccabile nell’esecuzione di “Cans And Brahms”, un pezzo classico di Johannes Brahms riarrangiato da Wakeman. Ah, ma quanto bello è “Fragile”? Dal vivo poi, le tracce rendono ancora di più, con una potenza che il disco quasi mai riesce a donare. “We Have Heaven”, “South Side Of The Sky”, una dietro l’altra, com’è giusto che sia, senza interruzioni, senza parole. L’assurda “Five Per Cent for Nothing” ci introduce allo striminzito riff di chitarra di “Long Distance Runaround” (solo a me la parte della strofa ricorda “Bring It On Home” degli Zeppelin?). “The Fish”, con Howe che registra in loop gli armonici e scompare per qualche minuto dal palco, perché lui può ed è giusto così. Niente paura, torna poco dopo a prendersi la scena da solo, sotto una luce giallastra, lui e una chitarra classica.

 

Ma che spettacolo, ma che meraviglia, bravissimo e impeccabile nell’esecuzione di una emozionante “Mood For A Day”, un saggio di chitarra classica. Poi ecco che torna, la canzone da dieci minuti abbondanti, che mi fa diventare gli occhi come due cuoricini pucciosi pucciosi, “Heart of the Sunrise”. Un intro rock che più rock non si può, con vaghi accenni ai King Crimson di “21st Century Schizoid Man”; il basso di Sherwood torna a scandire il tempo, come a dire “qui comando io”, mentre Howe riemerge in sottofondo, prima di prorompere nuovamente nell’impetuoso riff iniziale. La tempesta è passata e la delicata voce di Davison ci prende per mano, accompagnandoci verso la fine di uno dei pezzi più belli della loro discografia. “Sharp – Distance..” Così si chiude un maestoso concerto di un gruppo di vecchietti ai quali davo davvero poche speranze di impressionarmi. Unica nota, la cover di “America” potevano anche farla, ma va bene così.

S’è fatta ‘na certa, mezzanotte e un quarto più o meno. La band saluta, Steve Howe da buon vecchietto rompicoglioni percula tutti quelli con il telefonino in mano che scattano foto e girano piccoli video ricordo della serata, io e Nicola usciamo e ci prendiamo, questa volta si, una buona birra, cogliendo l’occasione per discutere come sempre di musica ed escogitando soluzioni di sopravvivenza all’incombere del lunedì. In sintesi: ovviamente gli Yes senza Wakeman, Squire e Anderson perdono molto, ma tutti i sostituti sono stati egregiamente all’altezza della situazione, proponendo uno spettacolo pressoché perfetto ed emotivamente molto coinvolgente. Alla fine, forse, non tutti i nostri vecchietti son da buttare.

Mirko Righetti

Mirko
Chi è Mirko
Nato e cresciuto a Verona (non troppo lontano dalla ridente Camacici), ma ormai adottato padovano. Mi piace parlare di musica per vecchi, ma anche di scienza e cibo, preferibilmente insieme. Il Mirkoledì va in onda il mercoledì dalle 16.00 alle 17.45, se non gioca il Milan.
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