Stiamo vivendo il periodo musicale più brutto di sempre?

“Ma che ne sanno i 2000?” è una frase sulla bocca di molti, soprattutto su quella delle persone sbagliate, come ad esempio tutti quelli nati nel 1999. Ovviamente questa domanda non necessita di una risposta: è l’ennesima manifestazione di un innato nonnismo che punta ad affossare gli anni del post-2000 considerati come tra i più anonimi di sempre.

Ma siamo davvero certi che invece gli anni Novanta, oggi così ricchi di nostalgia, o qualsiasi altro periodo del secolo scorso, siano superiori al presente come molti vanno enunciando? Riflettendoci, ogni decade passata riscuote un certo fascino e per ora sembra impossibile trovare qualcosa che contraddistingua iconicamente il 2000. Tralasciando un’improbabile sintesi estrema di tutta la storia del ventesimo secolo e provando a concentrarsi in ambito musicale, risulta alquanto facile fare i seguenti collegamenti: anni Sessanta – Woodstock, anni Ottanta – heavy metal, anni Novanta – Nirvana, ma se si parla del 2000 a cosa si pensa? Apparentemente si è sprovvisti di icone efficaci e pronte all’uso, come se questi primi anni del nuovo secolo siano stati più che altro un periodo di transizione apparentemente non ancora concluso. A contrastare l’idea che anche il presente continui a sfornare prodotti interessanti ci pensano soprattutto i nostalgici puristi del rock, convinti che dopo i Queen non sia stato prodotto più nulla di buono.

“La musica di oggi è insipida. Un tempo non c’era brutta musica.”. Il fatto che non ci sia pervenuta una grande quantità di musica scadente dal passato non vuol dire che non ce ne fosse: le varie meteore della bubblegum music o perle trash come Philosophy of the World (1969) delle Shaggs non sono altro che una piccola punta di un iceberg ben più inquietante, per non parlare di alcuni lavori di Bowie, Lennon, Elvis e dei Velvet Underground che sarebbe meglio rinnegare piuttosto che riscoprire. Arrivati a questo punto qualcuno potrebbe controbattere paragonando la classifica dei dischi più venduti in passato con i dischi più venduti nel 2016 ed effettivamente non vi sarebbe confronto. Senza soffermarsi troppo sul discorso mercato musicale, il quale è stato decisamente stravolto nel corso degli ultimi vent’anni soprattutto a causa della rivoluzione digitale, c’è da dire che la presenza di nomi imbarazzanti che spopolano le vette delle classifiche non esclude comunque l’esistenza di altrettanti prodotti di qualità, relegati nelle retrovie rispetto ai singoli più immediati.

Andando al di là del discorso classifiche, come mai un nostalgico, ascoltando ciò che il mercato musicale post-2000 ha da proporgli, pensa che la musica di oggi non sia buona? Forse ciò che irrita di più è il temibile avanzamento della musica elettronica “non suonata” e il conseguente allontanamento dal rock dal contesto popular. “La musica elettronica! Il “diggei”! La vera musica si fa con gli strumenti!” sono solo alcune delle imprecazioni sentite all’infinito e basate su un fondamentale pregiudizio: MUSICA ELETTRONICA = LUNEDÌ SERA ALLA DISCOTECA. Eppure se si decidesse di prendere in considerazione qualche autore di rilievo si potranno riscontrare una serie di riferimenti interessanti in questo genere.

Dopo tutto la musica elettronica nasce proprio dalla musica colta, dalle sperimentazioni sonore, quindi all’esatto opposto della musica popular. Come per le produzioni di Ligeti e Stockhausen, alla radice della musica elettronica c’è un particolare campione (sample) rielaborato e processato e disposto in un certo ordine. Tra i nomi più interessanti che sono usciti negli ultimi anni spicca quello di Flying Lotus che con il suo album Cosmogramma ha aperto le porte al 2010 con un’unione perfetta tra l’EDM, il jazz e l’hip hop. Proprio il suo lato jazzistico è stato consacrato nell’ultimo You’re Dead! (2014) grazie alla presenza del sassofonista Kamasi Washington, altro musicista imperdibile che con il suo The Epic (2015) ha revitalizzato il panorama jazz. Il sodalizio tra Washington e l’hip hop non si ferma a Flying Lotus, infatti il suo sax tenore compare anche nel disco di maggior successo di tutto il 2015, To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar. Un tributo alle lotte di classe e anti-razziali, per un concentrato di rap e black music molto articolata che unisce la tradizione all’innovazione. La lista dei grandi rivoluzionari del genere non si ferma qui e anche l’hip hop ha saputo evolversi negli ultimi sedici anni senza rinnegare le sue solide radici toccando ovviamente la cultura afro-americana e unendosi addirittura a nuove realtà come l’elettronica e il rock. Il rock e il rap sono andati a braccetto in diverse occasioni, basti pensare a gruppi come Beastie Boys o Rage Against the Machine, ma un ulteriore passo successivo l’ha fatto un gruppo eccentrico e poco noto chiamato Death Grips. La loro idea di base è partire dal rap per poi oltrepassarne le barriere, unendo il rapping a basi strumentali che spaziano dall’elettronica più aggressiva al rock, condendo il tutto con samples sempre azzeccati. Il risultato è la perfetta fusione tra Prodigy, Beastie Boys e Converge.

Ma se i rappers e i DJ sono diventati le nuove rockstar, che fine hanno fatto i musicisti rock? Confrontando il rock classico e quello a noi contemporaneo sarà facile notare una serie di differenze che vanno al di là delle sonorità ma che si basano di più su un discorso puramente sociale. La musica è cambiata perché la società è cambiata. L’idea di rock come manifestazione di una contro-cultura che è entrata nell’immaginario collettivo dagli anni Sessanta non era altro che lo specchio della contemporaneità e il messaggio di ribellione si è man mano affievolito, quindi possiamo permetterci di non comprendere in pieno fenomeni  che non ci appartengono. Un possibile spartiacque individuato da molti critici musicali è il 1994, anno della morte di Kurt Cobain. Molti hanno affermato che il rock sarebbe sparito da lì a breve, ovviamente si sbagliarono. Nulla ha impedito a una lunga serie di nuovi autori di salire alla ribalta proponendo sfaccettature fino ad allora impensabili per il genere, sperimentando e ottenendo nuove soluzioni, esempi lampanti sono il post-rock dei Godspeed You! Black Emperor, che ha acquisito sembianze sempre più sinfoniche e il grande ritorno degli Swans dopo lo scioglimento, sempre pronti a rinnovarsi da oltre trent’anni, passando dal noise al folk e arrivando al post-rock più apocalittico. Molto spesso le sperimentazioni legate a questa nuova fase del rock sono legate alla riproposizione di vecchi modelli rinnovati e contestualizzati presentando qualcosa di nuovo da dire. Un po’ come fanno, tra i tanti, i Tame Impala e gli Animal Collective, pionieri di una ritrovata scena neopsichedelica che con i rispettivi Lonerism (2012) e Merriweather Post Pavillion (2009) hanno realizzato dei piccoli classici, o i più tradizionali The Strokes e The White Stripes, arrivando fino al genere progressive capitanato dal sommo Steven Wilson. Ciò che accomuna tutti questi prodotti sono le nuove sonorità applicate all’idea di creare qualcosa di nuovo partendo da un prototipo già noto. E se fosse proprio questo il problema? Se tutto questo revivalismo fosse inteso come uno scarso accumulo di idee? In questo caso va menzionato l’esordio dei Battles datato 2007: Mirrored. Con questo lavoro, il trio newyorkese propose forse il disco più sorprendente dell’intera decade, realizzando un prodotto senza età e senza apparente appartenenza temporale. Scenari bizzarri e psichedelici abbracciano sonorità sintetiche contemporanee, groove rock si sposano con strutture progressive e cambi di tempo talmente intricati da rientrare in un contesto math. Un trio che sembra grande quanto un’orchestra, dove anche la voce umana funge da vero e proprio strumento.

Questa è solo una minima parte di ciò che è arrivato a noi negli ultimi sedici anni di musica, senza contare il genere pop, sempre più sofisticato ma altrettanto di facile ascolto e che insegue un filone ormai consolidato di ibridazione tra generi, o più nello specifico il panorama italiano, altrettanto notevole ma altrettanto snobbato. Quindi è davvero la qualità che manca, o a mancare sono forse le icone o degli avvenimenti con i quali identificare questa nuova era? In effetti per quanta ottima musica continui a essere pubblicata, questo XXI secolo deve ancora proporci i degni successori di Hendrix, Bowie, Lennon o semplicemente è ancora troppo presto per rendersi conto del loro operato. Non è da sottovalutare inoltre il fatto che l’intera industria discografica e i media siano stati stravolti e che questa sfiducia nel 2000 possa anche essere legata di più all’ottica frenetica del vivere tutto e subito, dove anche l’idea di ascoltare un disco stia diventando un’operazione sempre più rara. Quindi, se l’ascolto è condizionato da questi fattori esterni e il vero problema sta nell’individuare della buona musica in un archivio praticamente infinito, basta armarsi della pazienza di farlo: in questo modo c’è ancora speranza di credere che il repertorio musicale giunto fino a noi negli ultimi sedici anni non finirà di certo nel dimenticatoio, anzi, potrà soltanto crescere di valore.