Max Gazzè e BSOP @ Gran Teatro Geox – 13 aprile 2017

Chi ha solo sentito e mai ascoltato Max Gazzè, sarà rimasto mezzo deluso dallo spettacolo di giovedì 13 aprile al Gran Teatro Geox. Da Alchemaya, l’opera sintonica di Max Gazzè, uno si aspetta i suoi brani, riarrangiati in chiave sinfonica grazie alla Bohemian Symphony Orchestra di Praga. Peccato che l’opera sia sintonica, e non sinfonica. Questo perché nell’orchestra sono stati introdotti elementi elettronici: i sintetizzatori. Quindi, riassumendo: un concerto di Max Gazzé, insieme a un’orchestra classica con qualche suono elettronico.

Ma non basta.

Perché Max Gazzè non è solo musica, ma anche, forse soprattutto, parole. Chi lo ha ascoltato in questi 20 anni sa che il cantautore romano ha una certa predilezione per la religione (uso questa parola per dare un’etichetta a quello che non si spiega fisicamente). Basti citare qualche titolo tra le sue canzoni: “Lilith”, “Favola di Adamo ed Eva”, “Signore mio”, “L’origine del mondo”, “Nuovi allineamenti di Stonehenge”, “Sottocasa”. Argomenti difficili, facilmente pesanti, trattati con melodie raffinate, o perlomeno orecchiabili, pop.

Con Alchemaya, Max Gazzè condensa le sue riflessioni, le sublima allo stato solido e le porte sul palco, con brani inediti, se così si possono chiamare, suonati dall’Orchestra di Praga. Come sempre, le parole usate da Gazzè, o dai Gazzè, dato che il fratello Francesco scrive con lui le canzoni, non sono banali. Stupisce l’esattezza dei termini usati, non c’è il minimo sentore di casualità in quello che canta. Le diverse sinfonie, che ripercorrono una esoterica genesi di un pianeta simile alla Terra, sono intervallate dagli interventi di Ricky Tognazzi, altra sorpresa dell’esibizione, che recita testi provenienti dal libro di Zecharia Sitchin “Il libro perduto del dio Enki”, dalle Tavole smeraldine, dalla Sacra Bibbia.

foto di Lorenzo Malavolta ⬇

Una creazione quindi, nell’universo che Gazzè ha pensato e costruito nella propria testa. Un concerto ingiudicabile al primo ascolto. Non si tratta di musica leggera, non c’è facile fruibilità, nelle musiche (con l’incastro tra sinfonie e sintetizzatori) e nei testi, inascoltabili senza un libretto che consenta di seguire il cantato. Si può però percepirne la bellezza, nella sua piena complessità a cui non siamo abituati, troppo indaffarati per poterci fermare più tempo su un elemento, un lavoro, un’idea. Ci accontentiamo delle cose carine, di piccole emozioni, e di annusare senza apprezzare veramente.

La seconda parte del concerto permette di annusare meglio questo sensazioni, quasi di farci accarezzare dalle canzoni di Max. Quello che tutti aspettavano in realtà: i suoi più grandi successi, riarrangiati grazie all’orchestra. Qui cade come una scure il giudizio insindacabile, e una preghiera: Max, molla basso, chitarra e batteria, e vai in giro con i violini, le trombe e tutta la brigata. Tutte le canzoni eseguite dal cantautore, da “Il timido ubriaco” a “La vita com’è”, passando da “Mentre dormi” per finire con “Una musica può fare” acquistano spessore, riempiono tutto lo spazio del teatro e giungono a un’altra dimensione rispetto alle loro versioni strumentali. Necessitano invece di riascolto i due inediti proposti, che in quanto tali conoscono solo la versione orchestrale: “Se soltanto” e “Un brivido a notte”, a riconferma delle considerazioni fatte su tutta la prima parte del concerto sintonico.

In conclusione, sicuramente una formula azzeccata quella di Max Gazzè: da un lato, levatura culturale e mitologia esoterica; dall’altra, l’amore per le proprie canzoni espresso come meglio non è possibile da parte di un musicista, ovvero con una orchestra alle spalle. E quindi, di nuovo, caro Max: viaggia con archi, fiati, percussioni e anche sintetizzatori se vuoi, ma fallo. Sarebbe tutto ancora più bello.