Jovanotti canta una canzone per la strage di Capaci

Jovanotti ha pubblicato un video sulla sua pagina facebook in cui canta un pezzo particolare, che non ha un titolo vero e proprio, in cui ricorda la Strage di Capaci, la tragedia del 23 maggio 1992, quando la mafia uccideva il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta.

La canzone è accompagnata da una lunga riflessione, nella quale il cantante ricorda la genesi della canzone, le sue sensazioni legate al testo e un messaggio per “i ragazzi” – parola che trova molto spazio nel testo di questo brano – e per il futuro.

Ecco il testo integrale del post ⬇️

Oggi sono 25 anni da quel 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci in cui morì Giovanni Falcone insieme alla sua compagna e agli uomini della scorta. Mi connetto con l’atmosfera di quella stagione del nostro paese, e lo faccio attraverso una cosa che scrissi di getto nei giorni dopo quella strage di mafia. Non era una canzone vera e propria, erano solo parole e le registrai con un microfono su un battito di cuore senza sapere neanche bene perché e che cosa farne, era come una cosa scritta su un diario, un “post” diremmo oggi. Claudio Cecchetto l’ascoltò e decise di stampare 1000 cd e li spedì a tutte le radio (non c’era internet ancora, nemmeno la mail, MP3, social network, niente). Tutte le radio italiane nei giorni dopo lo passarono a ripetizione e ancora oggi c’è chi se lo ricorda. Specialmente quando vado in Sicilia non manca mai qualcuno che me ne parla, che ha legato un suo ricordo personale a quei giorni e a quella specie di canzone.

Mi ricordo benissimo Palermo in quelle ore successive, mi invitarono a fare questo pezzo allo stadio che era pieno di ragazzi e ragazze e mi colpì il silenzio, che in uno stadio è una cosa che si fa notare. Più dei discorsi di chi era sul palco, più delle musiche che qualcuno suonava quella sera era il silenzio a parlare. Quel tipo di silenzio che si racconta arrivi tra i soldati prima di una giornata decisiva, che dopo non sarà più lo stesso per nessuno, e tutti lo sanno ma non se ne parla, perché il silenzio serve di più.
Penso ancora che quei giorni furono fondamentali per molti italiani, per me lo furono di sicuro. Io sono stato ragazzo negli anni 80, la politica e l’utopia “sociale” non sono parte della mia formazione, anzi forse non ce l’ho neanche avuta una formazione, l’unica idea forte in me era quella di un mondo aperto, e mi sa che lo è ancora. Quei giorni del 1992 mi aiutarono a sentirmi parte di qualcosa di molto più grande di me, di una lotta strana, che non si combatte con i proclami o le prese di posizione plateali e vittimiste ma con le scelte quotidiane spesso invisibili, quando si studia, quando si fa un lavoro, nei rapporti con le persone, quando si fa la spesa, quando si progetta un futuro, quando si sta semplicemente al mondo, senza nemmeno essere visti da qualcuno. E’ la lotta per un mondo migliore non secondo un’idea assoluta da perseguire ma in quanto migliorabile attraverso la vita che uno fa, le scelte di ogni giorno, i desideri, le inclinazioni, le proprie forze, i punti deboli. In questo Falcone e Borsellino c’entrano, perché la loro vita racconta una cosa che è più evidente di altre: non facevano gli eroi, lo erano. Per agire da veri uomini di Stato erano spesso costretti a passare per “rompicoglioni” all’interno degli stessi ambienti che li avevano incaricati, perché facevano bene il loro lavoro, che era un lavoro pericoloso, ma che avrebbero potuto svolgere molto al di sotto della soglia del pericolo, e nessuno si sarebbe lamentato, anzi.
Ma questi sono discorsi che lascio a chi li sa fare meglio di me, io oggi voglio solo legarmi a quei giorni e sentire cosa è rimasto in me, come si è sviluppato, cosa è cambiato. Oggi Falcone e Borsellino sono due “santi laici” ed è giusto che lo siano, ma per me sono prima di tutto due persone che hanno interpretato alla perfezione e in modo eroico il primo articolo della Costituzione che dice che “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”. E’ per questo che sono stati uccisi, loro e gli altri, perché facevano bene il loro lavoro, la cosa più importante che c’è. E infatti il lavoro è proprio la terra di conquista della criminalità, il lavoro prima di tutto il resto, a me sembra così, è quella bugia per cui ti fanno credere che il lavoro sia una favore, mentre invece è un diritto, e se uno oggi ce l’ha un lavoro da fare, che già non è una cosa scontata, e non lo svolge bene, finisce per essere complice di chi distrugge tutto.

In questa canzone la parola che ripetevo (e che ho ripetuto suonandola stamattina dopo 25 anni) è “ragazzi”. Se la riscrivessi oggi probabilmente non cambierei una virgola, e ripeterei di nuovo “i ragazzi” perché nel silenzio di un giorno che comincia, è così che ci si sente, a tutte le età. La famosa immagine in cui Falcone e Borsellino sono insieme e si dicono qualcosa sorridendo la scattò un fotografo, Toni Gentile, che aveva 28 anni e loro due poco più di 50 a testa, in questo scarto generazionale c’è il racconto di un paese (di un’ Europa direi, perché la criminalità organizzata e la corruzione sono diffuse ovunque) che aveva un futuro e che, dopo 25 anni, mi azzardo a dirlo, ce l’ha ancora, anche grazie a quei “ragazzi” e al loro “cuore”.

Oggi in piazza a Palermo ci saranno nuovi ragazzi, e ci saranno molti di quelli di allora. Falcone e Borsellino sono vivi, sono vivi dentro di me, dentro di noi.