Dove nasce il termine “bravo”?

La questione è arrivata fino all’Accademia della Crusca che ha condiviso l’articolo scritto da Francesca Boccaletto su Il Bo. “Se oggi mi definisci bravo dovrei, dunque, offendermi?” si chiede la giornalista, e la risposta è “No, perché “nella lingua attuale bravo è, in primo luogo, chi è abile”. Partendo dal libro Bravo! (Il Mulino) di Giuseppe Patota, professore di linguistica italiana all’università di Siena-Arezzo, Francesca Boccaletto ha proposto un viaggio alla scoperta delle radici della parola.

LE ORIGINI

Bravo è una parola di uso comune ma quali sono le sue origini?

Il viaggio di questa piccola (ma assai diffusa) parola inizia, dunque, molto tempo fa. Dal primo Trecento al primo Quattrocento, l’aggettivo bravo ha un significato in cui si confondono crudeltà e ferocia, coraggio spinto fino alla spavalderia e indole selvaggia. Nella seconda metà del Quattrocento raggiunge, poi, i campi di battaglia: la valenza resta negativa ma, nell’Italia tra la fine del Quattrocento e la metà del Cinquecento, “quando lo scontro non è invenzione di poeti ma memoria e narrazione di fatti reali, essere bravi è una virtù necessaria nel senso machiavelliano del termine […] Nel Cinquecento quello dei bravi era un mestiere, un brutto mestiere nato quando le compagnie di ventura italiane si dissolsero, travolte dalla superiorità degli eserciti europei. I congedati e gli sbandati, incapaci di adattarsi a una professione civile presero altre strade, alcuni divennero sgherri al servizio di privati potenti altri presero a vivere di espedienti e truffe”. C’erano i bravi veri, quelli pericolosi che menavano le mani e commettevano soprusi – categoria ben rappresentata nel dipinto del 1522 di Tiziano Vecellio, Il bravo – e c’eran quelli ‘a credenza’, chiamati così da Pietro Aretino nella commedia La Talanta del 1542, spaventosi solo nell’aspetto, delinquenti da quattro soldi. Leggi tutto l’articolo su Il Bo

 


 

L'USO MODERNO

Quando si arriva, infine, al bravo moderno e positivo? “La vera prima attestazione è quella tratta dalSaggiatore del toscano Galileo Galilei, pubblicato nel 1623”, scrive Patota, ma in realtà “è possibile risalire parecchio più indietro nel tempo […] Nel sonetto che fa da proemio alla Priapea, un’oscena raccolta di versi pubblicata nel 1541 e intitolata a Priapo, dio pagano famoso per le spropositate misure del pene, il beneventano Niccolò Franco invoca le Muse così come i bravi poeti soglion fare”. Nel corso del Seicento, come aggettivo, viene sempre più utilizzato in senso positivo e tra Seicento e Settecento inizia ad assumere il significato di buono e onesto. E questo anche grazie a Carlo Goldoni che costella di bravo e brava le sue opere. Così ne Il cavaliere giocondo: “Avrete accanto sì bravo figliuolino”. Nella commedia I malcontenti: “Ella ha un bravo nipote”. Ne L’uomo di mondo: “Bon! Gh’avè una brava sorella”. Infine, ne La donna di garbo, Goldoni fa descrivere al Dottore le virtù di Rosaura…Continua a leggere su Il Bo